RACCONTI DI AMICI SCRITTORI


 FABRIZIO ARRIGHI E IL SUO RACCONTO SULLA ZIA


    LA  DIVERSITA' E' SOFFOCATA  DAL  PREGIUDIZIO


  L'uomo, nel corso della sua storia millenaria e  per mezzo di una curiosità innata ha otte­nuto  l'esperienza necessaria per valutare tutto ciò che è conosciuto come positivo e  rassicurante,  mentre,  attraverso convinzioni sbagliate, ha valutato le cose  sconosciute  come negative scatenando paure ataviche, spesso immotivate.
Paura degli zingari, fastidio verso gli omosessuali, biasimo contro i  drogati, odio verso chi ha un colore diverso della pelle, lancio di anatemi contro chi  professa una religione diversa da quella cattolica, pietà  nei confronti dei diversamente abili e disdicevole commiserazione  verso chi  soffre di turbe psichiche. I danni  provocati dall'ignoranza possono rivelarsi  terrificanti.

Io sono nato in una minuscola  borgata, edificata in tempi antichi tra le colline moreniche  della  vasta  campagna lonatese. Sin da piccolo ho avuto  un legame fortissimo con l'ambiente circostante.
Scorazzavo selvaggio e felice dentro  una natura incontaminata, in un saliscendi incessante tra  le basse colline.   Rimanevo incantato a testa in su ad osservare il volo delle rondini,  controllavo all'interno dei nidi, nascosti tra le fronde delle querce,  se la cova delle uova procedesse nel modo migliore. Seguivo l'alacre  scavo della talpa nei  terreni seminati di  frumento e granoturco.   Invidiavo la lepre per la sua velocità e lo scoiattolo dalla coda nera  per l'agilità negli spostamenti sugli alberi. Abbracciavo con lo sguardo quelle creature che ritenevo divine e in perfetta sintonia con la mia anima.

  L'estate era la stagione migliore per fare scorpacciate di ciliegie, di uva agliana, di fragole, albicocche e pesche. La fragranza di quei frutti naturali non l'ho scordata e mai più ritrovata.
I ricordi lasciano spazio ad altri ricordi.
   Ricordo l'autunno, il gorgogliare del ruscello dopo giorni di pioggia intensa, il volo delle foglie  striate di colori fiammeggianti, rammento l'estenuante difficoltà nel trovare i porcini e gli ovuli, nella boscaglia impenetrabile.  Quando  mostravo orgoglioso il cesto colmo di profumati funghi, ero  gratificato dalla soddisfazione stampata sul volto della mamma e del papà.
  L'inverno era la stagione che amavo di più. Nelle malinconiche giornate nebbiose la mia solitudine si vestiva di spazi dorati. Il paesaggio dai   contorni sfumati,  creava nell'animo una magica atmosfera. E quando cadeva la neve rimanevo  interi pomeriggi con  il viso schiacciato contro la finestra a osservare il lento fioccare  mentre copriva  di un candido mantello la sonnolenta campagna.

   Quantunque  i postumi della guerra avessero lasciato una pesante eredità e la povertà fosse imperante, crescevo coccolato  e accudito amorevolmente dai genitori, e i  nonni paterni.  Non venni mai privato delle cose essenziali per il sostentamento fisico e morale.
Ai nostri giorni il rimpianto di quei tempi rimane  quello di avere smarrito la sacralità data agli oggetti  e il giusto valore alle cose possedute.
   Semmai l''unico vero rammarico è  legato al ricordo della  zia Rica, sorella di mio padre.
Una donna strana, taciturna, lo sguardo severo, gli occhi due pozzi di malinconia. Magra e allampata  indossava abiti dimessi. Aveva un viso allungato simile a quello delle maschere  di Modigliani;  i capelli raccolti dalle forcine, in un cucù dietro la nuca. Alla soglia dei quarant'anni viveva ancora in famiglia. Non era bella ma neppure brutta,
Senza  fidanzato e   amiche vere. Un essere solitario. Era la classica zitella inacidità che svolgeva l'attività di governante presso una ricca famiglia del paese.

Di certe giornate  ricordo i suoi repentini cambi d'umore:  un momento era dolce, poi all'improvviso sembrava posseduta dal demonio, diventava scorbutica,  scontrosa,  lo sguardo incattivito e si metteva a  scagliare a terra  quanto gli capitava sotto mano, accompagnando i gesti con frasi ingiuriose. Concluso lo sfogo, docile come un agnello  riparava in camera  a liberare l'astio  in un singhiozzare sommesso.
La serenità e l'unità  della famiglia era incrinata dai comportamenti della zia. Nonostante fossi spaventato, quando aveva una crisi  la seguivo nei suoi spostamenti.
  “ Vattene impiccione” mi gridava in tono sgarbato.
 Eppure sono  convinto che di indole fosse buona e gentile, senz'altro  incompresa; protettiva nei miei confronti; ricordo quando   mi accompagnava al lago in bicicletta a fare il bagno, mi seguiva con  sguardo amorevole durante le mie evoluzioni in acqua.
   Se  aspiravo ad avere  un nuovo  giocattolo, lei faceva il possibile per soddisfare la mia richiesta.
   Quando chiedevo spiegazione a un familiare  sul  comportamento invero strano della zia Rica, la risposta era sempre la stessa: “ Poverina è matta.”
E non capivo realmente cosa significasse tale espressione, però la collegavo a qualcosa di brutto e misterioso che attaccava il pensiero  della persona  senza più  abbandonarla.

   La notte di santa Lucia dell'anno 1961 accadde l'irreparabile. I miei genitori erano in viaggio in treno diretti a Roma perchè  il giorno seguente, il papà  doveva sottoporsi a una visita fiscale per la pensione d'invalido di guerra.
Quel pomeriggio avevo fatto il diavolo a quattro per andare anch'io  a Roma,  al solo pensiero di rimanere in compagnia della zia mi rattristava parecchio.
   “Non puoi venire con noi, domani devi andare a scuola” disse la mamma troncando sul nascere  ogni discussione.

   Giunse la sera. Una gelida serata invernale. Ero  in pigiama pronto a  recarmi nel  letto quando, eludendo  la sorveglianza della zia,  scappai  in ciabatte all'aperto inoltrndomi in aperta campagna,  durante  l'imperversare  di una fitta nevicata. Trovai riparo nel vigneto, sotto un cespuglio di alloro. Ben presto  le mie spalle e il capo  si coprirono di neve polverosa, iniziai a rabbrividire dal freddo, ma stoltamente  rimasi acquattato a osservare il paesaggio ovattato. E pensare che avevo solo sei anni.

Dopo alcuni minuti  nel candore del buio notturno, udii il cigolare di una bicicletta. Il riverbero del biancore rendeva nitida la sua figura: era la zia Rica che spingeva le staffe come una forsennata, gridava a gran voce  il mio nome che si disperdeva nell'urlo uggioso del vento. La vidi sostare davanti allo stagno ghiacciato poi scomparve dalla vista, forse era diretta alla vicina casa dei nonni materni.
Trascorse un tempo parso interminabile prima di vederla riapparire, curvata sulla bicicletta in una pedalata sbilenca, affannosa,  causata dallo spessore della neve accumulata sul manto stradale.
Ricordo che continuava a chiamare il mio nome e la sua voce era terrorizzata. Io, bastardo, non risposi al richiamo.Trascorsi un'ora all'addiaccio, finchè la paura del buio e la notte tempestosa ebbero il sopravvento e mi portarono alla decisione di ritornare a casa. Ero spaventato, consapevole di averla fatta grossa.
    Intirizzito, imbiancato, bagnato fradicio, comparvi sull'uscio di casa simile a un pulcino bagnato.
 I nonni, la zia, la sorella, avevano il volto pietrificato dall'angoscia e trassero un profondo respiro liberatorio; subito dopo venni tempestato da una scarica di ceffoni da parte della zia.
   “Disgraziato hai provocato uno spavento terribile in tutti noi, non ti azzardare più....” disse spogliandomi degli indumenti bagnati prima di immergermi nella tinozza, per un corroborante bagno caldo.
   “Voglio la mamma, voglio il papà” urlai disperato, il volto rigato dalle lacrime.
   “Taci, stupido moccioso” disse sollevando in aria la mano, minacciando di  appiopparmi altri schiaffi.
Il nonno Carlo, che aveva i baffi a forma di manubrio e l'espressione severa  di un generale asburgico,  intervenne in mio soccorso.
   “ Basta così, il ragazzino ha imparato la lezione, non credeva di fare nulla di male, lo sai quanto sia affascinato dalla neve” disse strizzando l'occhio.
   “Rischiava di morire assiderato ed era sotto la mia tutela” replicò la zia scocciata, visibilmente irritata.
     “Tu sei matta, e non ti voglio più vedere” risposi cattivo come  i bambini sanno esserlo in determinate circostanze.
   Quelle parole insolenti  crearono un pericoloso   precedente che  nel tempo sarebbe degenerato.

Quando i diavoletti della depressione andavano  a visitarla mi veniva naturale apostrofarla matta.Stai zitta matta. Tu sei la zia matta. Nessuno vuole una matta.  Quando la cantilena ingiuriosa  diventava insostenibile, interveniva la mamma, per la  verità, in modo assai blando,  insinuando  il  dubbio che le mie espressioni offensive, tutto sommato avessero  un fondamento di verità.
Negli anni a seguire la zia si isolò sempre più nel suo mondo fantastico. Aveva il viso prosciugato e pareva scolpito nella sofferenza. Parlava a monosillabi, convinta di essere  un peso  insostenibile per la famiglia e bastava  una parola sbagliata per trasformarla in un persona   intrattabile e scatenare scenate spaventose. Quando crollava il bozzolo dei suoi castelli di sabbia, diventava  difficile ricomporre le macerie.
   Sul finire di agosto  dell'anno 1966  rientrai a casa dopo la villeggiatura in colonia, al mare. Alla fermata  del  bus mi aspettava mio padre,  ricordo la sua espressione sofferente, la barba  lunga, il viso stropicciato mentre annunciava  che da pochi giorni la zia Rica era mancata a causa di  una malattia tumorale. Il babbo  rammentò le atroci sofferenze affrontate con cristiana rassegnazione e   le dolci parole rivolte nei miei confronti.
  Calde lacrime mi rigarono le guance.

 In seguito venni informato che la zia, di natura estremamente pudica, per evitare di farsi 
palpeggiare dal medico, non aveva  mai voluto  approfondire l'origine  dei  ricorrenti dolori al seno. Che sciagurato sbaglio. Quando il tumore  esplose in tutta la sua virulenza e gravità,  si rivelò tardivo  l' utilizzo  di una cura efficace.
  Oggi lo so, nei ricordi vaporosi della mente  rimane indelebile  il rimpianto  della tua perdita e, come una ferita aperta,  rimane  vivo il dolore  di  non avere fatto nulla, a causa della troppa ignoranza,   per  tentare  di  aprire un varco, una breccia,  contro il muro dell'indifferenza  eretto dalla famiglia nei tuoi confronti.

 Quanti  errori, quanta sofferenza si sarebbero potuti evitare alla zia. Bastava armarsi di sana  pazienza, informarsi, avere la voglia di ascoltare invece di reprimere. A quei tempi, eminenti pensatori sostenevano   che i malati di mente fossero l'espressione, lo specchio deformato della società. Dopo scoprirono che bisognava indagare all'interno della famiglia, quale  fonte originaria di ogni malessere psichico e disagio esistenziale  in  soggetti fragili e sensibili.

  La diversità è soffocata dal pregiudizio.

  Credo che in molti casi  la follia, le fobie, gli stati d'ansia, le crisi epilettiche, non sono una semplice predisposizione mentale, ma nascono  quando la persona non viene veicolata in  modo corretto durante lo sviluppo e  la crescita. Una natura sensibile sottoposta a  mille frustrazioni, incomprensioni, contrasti emotivi, perde  fiducia in sé stessa e trasforma il tutto in risentimento, ossessione, isolandosi dal resto del mondo.

  Bastava  avere il coraggio di parlare col  cuore e mostrare   amore, affetto,  incoraggiare   e  combattere assieme le paure  e forse il percorso della zia Rica, nonostante tutto,  si sarebbe potuto incanalare e stabilizzare nel binario di  una vita dignitosa.
   A distanza  di quarantacinque anni, rivolgo a te, cara zia, il mio accorato appello  di perdono, per tutte le volte che sono stato sgarbato, per averti dileggiato, sbertucciato, offeso, quando dalle  pieghe del tuo  sorriso amaro, reclamavi amore e comprensione.
   Dal mondo dell'indistinto dove ti trovi,  spero di ricevere dai tuoi occhi un benevolo sorriso compiaciuto.

   Forse aveva ragione Martin Luther King quando affermava che :

Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio si alzò ad aprire e vide che non c'era nessuno.”


UN POETA ENTRA IN SCENA


       Buonasera lor signori, un poeta entra in scena.

    Adesso vi apro la casa dei miei ricordi. Cosa aspettate? Prego entrate. Ricordo il tramonto incendiario in Polinesia.

 Il treno sulle Ande sospeso nel vuoto.
 La neve finlandese.
 Le piogge monsoniche.
 Il perpetuo moto ondoso sulla scogliera irlandese.

 La notte trascorsa nell'oasi,  respirando  il silenzio opprimente del deserto. Ricordo la savana ricca di magnificenza e inganni. Ho visto la tragedia della sopravvivenza assistendo allo scontro mortale tra un'anaconda e un coccodrillo. I ricordi lasciano spazio ad altri ricordi.

 Ricordo l'albergo catapecchia di Hanoi, una squallida camera dai muri sbilenchi, l'intonaco giallognolo e scrostato, i mobili pieni di fessure e corrosi dalle tarme. L'odore rancido e stantio simile a quello di tutti gli alberghi malandati.

 Eppure quei muri, come spugne, avevano assorbito il dolore degli uomini e il loro fallimento con la guerra. 
Ricordo l'immensa pianura russa, i suoi boschi di betulle e latifoglie, attraversati in treno durante l'imperversare della bufera, il ricordo correva al dottor Zivago, al senso della libertà nella dacia congelata, all'infelice amore, alla tirannia, ai milioni di morti.

 Rammento, in una assolata Città del Messico, un vecchio sdentato piangere disperato, le braccia protese al cielo, mentre accompagnava il feretro del figlio, morto di stenti nel  tentativo di attraversare la frontiera degli Stati Uniti, alla ricerca della felicità.

 Ricordo la scritta sul muro esterno del terribile carcere di Algeri: 

il ferro si piega, l'acciaio si spezza e l'uomo?

   Ah, quanta sofferenza scopri nel mondo visitato.
   Nell'urlo del vento sembra di percepire i lamenti delle anime perse, in cerca della pace.

 Si dipana, sotto il blu cobalto del cielo, la storia dell'uomo: in tutta la sua grandezza, in tutta la sua miseria;   proprio per questo se vogliamo dare un senso alla nostra vita cerchiamo di viverla il più  possibile in armonia con il prossimo e di godere e preservare  la bellezza del mondo;

 presto del nostro passato non rimarrà traccia  e sarà come se non fossimo mai esistiti, perchè Dio e qualunque opinione abbia di lui morrà con me assieme a Satana. Amen.


                                                                     Autore    Fabrizio Arrighi


Il nostro Fabrizio Arrighi ha Scritto un breve Racconto sulla Fiera di Lonato e l'Ambulanza


       L'AMBULANZA


ERA UNA FREDDA GIORNATA.FOLATE DI TRAMONTANA AVVOLGEVANO IN UN GELIDO ABBRACCIO UN'INTRISTITA CAMPAGNA. DAL CIELO, PRIGIONIERO DI UNA DENSA COLTRE GRIGIASTRA SCENDEVANO RARI FIOCCHI DI NEVE E A LUNGO VOLTEGGIAVANO PLACIDI PRIMA DI CADERE AL SUOLO. 


  E IN UN SIMILE SCENARIO METEOROLOGICO MI RECAI A VISITARE LA FIERA DI LONATO. ERO IN PREDA ALL'INQUIETUDINE E PERCEPIVO UNO STRANO MALUMORE SENZA TUTTAVIA RIUSCIRE A COGLIERE IL SENSO PREMONITORE DI TALI SENSAZIONI FISICHE.  

GIRAI A LUNGO FRA LE BANCARELLE, SORSEGGIANDO NUMEROSI CAFFè IN COMPAGNIA DI AMICI DI VECCHIA DATA. DOPO POCO TEMPO VENNI ASSALITO DA UN SENSO DI SOFFOCAMENTO ALLA GOLA, IL RESPIRO SI FECE AFFANNOSO E CONATI DI VOMITO SALIRONO DALLA BOCCA DELLO STOMACO.  

IMPUTAI ALL'ABUSO DI TROPPI CAFFè E ALL'ABBIGLIAMENTO POCO ADATTO A CONTRASTARE IL FREDDO PUNGENTE,LA CAUSA DI TALE MALESSERE.
 
UNA PRECIPITOSA FUGA A CASA FU L'UNICA SOLUZIONE. APPENA VARCATA LA SOGLIA DISSI A MIA MOGLIE DI STARE POCO BENE. TREMAVO SCOSSO DA VIOLENTI BRIVIDI INCONTROLLABILI, SPASMI ALLA PANCIA FACEVANO SUSSULTARE IL CORPO, MENTRE GLI ARTI DIVENTARONO GHIACCIATI. SDRAIATO SUL DIVANO CHIESI ALLA MOGLIE DI RICHIEDERE L'INTERVENTO DELL'AMBULANZA CHE, PROPRIO QUEL GIORNO, ENTRAVA PER LA PRIMA VOLTA IN FUNZIONE. IN CAPO A CINQUE MINUTI ARRIVARONO QUATTRO TRAFELATI GIOVANOTTI.

IN FRETTA E FURIA VENNI LEGATO COME UN SALAME ALLA LETTIGA DOPO AVER DIAGNOSTICATO, A PARER LORO,UNA BRUTTA CONGESTIONE. NELL'ATTRAVERSARE AL BUIO IL VIALETTO, UN PORTANTINO URTò CON IL PIEDO UN GROSSO MASSO SPORGENTE E FU COSTRETTO A LASCIARE LA PRESA. LA BARELLA , PRIVA DI UN SOSTEGNO, SI CAPOVOLSE E DUE DEI BARELLIERI VOLARONO A GAMBE ALL'ARIA IN UNA SORTA DI PIROETTA MORTALE. LA LETTIGA SCIVOLò PER UNA DECINA DI METRI SUL TERRENO INNEVATO, MA ANCHE SOPRA LA MANO DI UNO DEI SOCCORRITORI E GLI LACERò QUATTRO DITA. UNA SCENA ESILARANTE APPARVE AGLI OCCHI DI QUANTI SI AFFICCIARONO ALLE FINESTRE, RICHIAMATI DALL'OSSESSIVO SUONO DELLA SIRENA. 

  IO CAPOVOLTO CON LA FACCIA NELLA NEVE GRIDAVO " AHIA, LA MIA PANCIA...AIUTO....OSSIGNUR...CHE DULUR". IL SOCCORRITORE REGGEVA CON LA MANO SANA QUELLA FERITA MENTRE IL SANGUE GOCCIOLAVA COPIOSO:" AHI LA MANO...AHI LA MANO".RICOMPOSTA LA SURREALE SCENA VENNI ADAGIATO ALL'INTERNO DELL'AMBULANZA , SOPRA LA QUALE MIA MOGLIE SALì PIUTTOSTO TITUBANTE. VENNE L'AUTISTA A CONTROLLARE LA SITUAZIONE. ERA UN RAGAZZO LENTIGGINOSO, ROSSICCIO DI CAPELLI E CON UNA BARBETTA SPELACCHIATA. GESTIVA UN NEGOZIO DI POMPE FUNEBRI E ASSOMIGLIAVA AL BECCHINO DI CERTI VECCHI FILM WESTERN. FU NATURALE SOPRANNOMINARLO MORTIMER.  

A UN CENNO DEI PORTANTINI PARTì A RAZZO SENZA ATTENDERE LA CHIUSURA DEL PORTELLONE CHE PRESE A SBATACCHIARE A DESTRA E SINISTRA SEGUENDO IL RITMO A ZIG ZAG IMPOSTO DALL'AUTISTA ALL'AMBULANZA.MORTIMER CORREVA A VELOCITà PAZZESCA.ALL'NTERNO ERAVAMO TUTTI AMMUTOLITI. GIUNTI A BRESCIA UN PORTANTINO CHIESE A MORTIMER DOVE FOSSE COLLOCATO L'INTERRUTORE PER ACCENDERE LE LUCI. 

PURTROPPO NON GLI RIUSCì DI FORMULARE APPIENO LA RICHIESTA PERCHè NELL'AFFRONTARE UNA CURVA IN PIENA VELOCITà, L'AMBULANZA NON CAPOTTò PER UN PELO. IL PORTANTINO, CHE NON SI ASPETTAVA UNA MANOVRA TANTO SPERICOLATA, DECOLLò DAL PAVIMENTO E SI SCHIANTò CONTRO IL TUBO METALLICO CHE SERVIVA DA ANCORAGGIO A MIA MOGLIE IN UNA POSA DA BALLERINA DI LAP DANCE. " aHI LA MIA SCHIENA" GRIDò INVIPERITO. 

  PER INCANTO RITORNò LA LUCE. FINALMENTE RAGGIUNGEMMO IL MPRONTO SOCCORSO DEL CIVILE E UN SOLLIEVO IMPORPORò IL VOLTO INCUPITO DELLE PERSONE A BORDO, COME A DIRE :" L'ABBIAMO SCAMPATA BELLA." MORTIMER APRì IL PORTELLONE MENTRE DUE BARELLIERI DELL'OSPEDALE ERANO PRONTI A RACCOGLIERE L'INFORTUNATO. SCESE IL PRIMO PORTANTINO CON LA MANO FASCIATA CON UN PANNO INZUPPATO DI SANGUE. "COS'è SUCCESSO?"CHIESE L'INFERMIERE. "NON SONO IO QUELLO BISOGNOSO DI ASSISTENZA" RISPOSE MANOMOZZA.  

  APPARVE IL SECONDO PORTANTINO PIEGATO A METà, A CAUSA DEL GRAN COLPO SUBITO ALL'INTERNO DELL'AMBULANZA. "COME TI SEI FATTO MALE?"DOMANDò ACCIGLIATO IL SECONDO INFERMIERE. "NO, NON SONO IO QUELLO CHE DOVETE SOCCORRERE" REPLICò IL GOBBO ,SOLLEVANDO A FATICA LA TESTA.  

"SI PUò SAPERE CHI CAZZO è CHE DOBBIAMO SOCCORRERE" SBRAITò ESPLICITO L'INFURIATO INFERMIERE. "iO" RISPOSI CON UN FILO DI VOCE.L'INFERMIERE CHIESE SPIEGAZIONI A MORTIMER PERCHè AVEVANO RICEVUTO LA SEGNALAZIONE DI CURARE UN INFORTUNATO E NON TRE.

MORTIMER SERRANDO FRA I DENTI UN SIGARO SPENTO RISPOSE A MEZZA VOCE:" ABBIAMO AVUTO DEI CONTRATTEMPI DURANTE IL VIAGGIO"DA ALLORA OGNI QUALVOLTA SENTO UNA SIRENA IN AVVICINAMENTO MI TOCCO CON UNA CERTA VIOLENZA LE PARTI INTIME.

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