FABRIZIO ARRIGHI E IL SUO RACCONTO SULLA ZIA
LA DIVERSITA'
E' SOFFOCATA DAL PREGIUDIZIO
L'uomo, nel corso della sua storia millenaria e per mezzo di una curiosità innata ha ottenuto l'esperienza necessaria per valutare tutto
ciò che è conosciuto come positivo e
rassicurante, mentre, attraverso convinzioni sbagliate, ha valutato
le cose sconosciute come negative scatenando paure ataviche,
spesso immotivate.
Paura degli zingari, fastidio verso gli
omosessuali, biasimo contro i drogati,
odio verso chi ha un colore diverso della pelle, lancio di anatemi contro
chi professa una religione diversa da
quella cattolica, pietà nei confronti
dei diversamente abili e disdicevole commiserazione verso chi
soffre di turbe psichiche. I danni
provocati dall'ignoranza possono rivelarsi terrificanti.
Io sono nato in una minuscola
borgata, edificata in tempi antichi tra le colline moreniche della
vasta campagna lonatese. Sin da
piccolo ho avuto un legame fortissimo
con l'ambiente circostante.
Scorazzavo selvaggio e felice
dentro una natura incontaminata, in un
saliscendi incessante tra le basse
colline. Rimanevo incantato a testa in
su ad osservare il volo delle rondini,
controllavo all'interno dei nidi, nascosti tra le fronde delle
querce, se la cova delle uova procedesse
nel modo migliore. Seguivo l'alacre
scavo della talpa nei terreni
seminati di frumento e granoturco. Invidiavo la lepre per la sua velocità e lo
scoiattolo dalla coda nera per l'agilità
negli spostamenti sugli alberi. Abbracciavo con lo sguardo quelle creature che
ritenevo divine e in perfetta sintonia con la mia anima.
L'estate era la stagione migliore per fare scorpacciate di ciliegie, di
uva agliana, di fragole, albicocche e pesche. La fragranza di quei frutti
naturali non l'ho scordata e mai più ritrovata.
I ricordi lasciano spazio ad altri
ricordi.
Ricordo l'autunno, il gorgogliare del ruscello dopo giorni di pioggia
intensa, il volo delle foglie striate di
colori fiammeggianti, rammento l'estenuante difficoltà nel trovare i porcini e
gli ovuli, nella boscaglia impenetrabile.
Quando mostravo orgoglioso il
cesto colmo di profumati funghi, ero
gratificato dalla soddisfazione stampata sul volto della mamma e del
papà.
L'inverno era la stagione che amavo di più. Nelle malinconiche giornate
nebbiose la mia solitudine si vestiva di spazi dorati. Il paesaggio dai contorni sfumati, creava nell'animo una magica atmosfera. E
quando cadeva la neve rimanevo interi
pomeriggi con il viso schiacciato contro
la finestra a osservare il lento fioccare
mentre copriva di un candido
mantello la sonnolenta campagna.
Quantunque i postumi della guerra
avessero lasciato una pesante eredità e la povertà fosse imperante, crescevo
coccolato e accudito amorevolmente dai
genitori, e i nonni paterni. Non venni mai privato delle cose essenziali
per il sostentamento fisico e morale.
Ai nostri giorni il rimpianto di quei
tempi rimane quello di avere smarrito la
sacralità data agli oggetti e il giusto
valore alle cose possedute.
Semmai l''unico vero rammarico è
legato al ricordo della zia Rica,
sorella di mio padre.
Una donna strana, taciturna, lo sguardo
severo, gli occhi due pozzi di malinconia. Magra e allampata indossava abiti dimessi. Aveva un viso
allungato simile a quello delle maschere
di Modigliani; i capelli raccolti
dalle forcine, in un cucù dietro la nuca. Alla soglia dei quarant'anni viveva
ancora in famiglia. Non era bella ma neppure brutta,
Senza
fidanzato e amiche vere. Un
essere solitario. Era la classica zitella inacidità che svolgeva l'attività di
governante presso una ricca famiglia del paese.
Di certe giornate ricordo i suoi
repentini cambi d'umore: un momento era
dolce, poi all'improvviso sembrava posseduta dal demonio, diventava scorbutica, scontrosa,
lo sguardo incattivito e si metteva a
scagliare a terra quanto gli
capitava sotto mano, accompagnando i gesti con frasi ingiuriose. Concluso lo
sfogo, docile come un agnello riparava
in camera a liberare l'astio in un singhiozzare sommesso.
La serenità e l'unità della famiglia era incrinata dai
comportamenti della zia. Nonostante fossi spaventato, quando aveva una
crisi la seguivo nei suoi spostamenti.
“ Vattene impiccione” mi gridava in tono sgarbato.
Eppure
sono convinto che di indole fosse buona
e gentile, senz'altro incompresa;
protettiva nei miei confronti; ricordo quando
mi accompagnava al lago in bicicletta a fare il bagno, mi seguiva con sguardo amorevole durante le mie evoluzioni
in acqua.
Se aspiravo ad avere un nuovo
giocattolo, lei faceva il possibile per soddisfare la mia richiesta.
Quando chiedevo spiegazione a un familiare sul
comportamento invero strano della zia Rica, la risposta era sempre la
stessa: “ Poverina è matta.”
E non capivo realmente cosa
significasse tale espressione, però la collegavo a qualcosa di brutto e
misterioso che attaccava il pensiero
della persona senza più abbandonarla.
La notte di santa Lucia dell'anno 1961 accadde l'irreparabile. I miei
genitori erano in viaggio in treno diretti a Roma perchè il giorno seguente, il papà doveva sottoporsi a una visita fiscale per la
pensione d'invalido di guerra.
Quel pomeriggio avevo fatto il diavolo
a quattro per andare anch'io a
Roma, al solo pensiero di rimanere in
compagnia della zia mi rattristava parecchio.
“Non puoi venire con noi, domani devi andare a scuola” disse la mamma
troncando sul nascere ogni discussione.
Giunse la sera. Una gelida serata invernale. Ero in pigiama pronto a recarmi nel
letto quando, eludendo la
sorveglianza della zia, scappai in ciabatte all'aperto inoltrndomi in aperta
campagna, durante l'imperversare di una fitta nevicata. Trovai riparo nel
vigneto, sotto un cespuglio di alloro. Ben presto le mie spalle e il capo si coprirono di neve polverosa, iniziai a
rabbrividire dal freddo, ma stoltamente
rimasi acquattato a osservare il paesaggio ovattato. E pensare che avevo
solo sei anni.
Dopo alcuni minuti nel candore del buio notturno, udii il
cigolare di una bicicletta. Il riverbero del biancore rendeva nitida la sua
figura: era la zia Rica che spingeva le staffe come una forsennata, gridava a
gran voce il mio nome che si disperdeva
nell'urlo uggioso del vento. La vidi sostare davanti allo stagno ghiacciato poi
scomparve dalla vista, forse era diretta alla vicina casa dei nonni materni.
Trascorse un tempo parso interminabile
prima di vederla riapparire, curvata sulla bicicletta in una pedalata sbilenca,
affannosa, causata dallo spessore della
neve accumulata sul manto stradale.
Ricordo che continuava a chiamare il
mio nome e la sua voce era terrorizzata. Io, bastardo, non risposi al
richiamo.Trascorsi un'ora all'addiaccio, finchè la paura del buio e la notte
tempestosa ebbero il sopravvento e mi portarono alla decisione di ritornare a
casa. Ero spaventato, consapevole di averla fatta grossa.
Intirizzito, imbiancato, bagnato fradicio, comparvi sull'uscio di casa
simile a un pulcino bagnato.
I
nonni, la zia, la sorella, avevano il volto pietrificato dall'angoscia e
trassero un profondo respiro liberatorio; subito dopo venni tempestato da una
scarica di ceffoni da parte della zia.
“Disgraziato hai provocato uno spavento terribile in tutti noi, non ti
azzardare più....” disse spogliandomi degli indumenti bagnati prima di
immergermi nella tinozza, per un corroborante bagno caldo.
“Voglio la mamma, voglio il papà” urlai disperato, il volto rigato dalle
lacrime.
“Taci, stupido moccioso” disse sollevando in aria la mano, minacciando
di appiopparmi altri schiaffi.
Il nonno Carlo, che aveva i baffi a
forma di manubrio e l'espressione severa
di un generale asburgico,
intervenne in mio soccorso.
“ Basta così, il ragazzino ha imparato la lezione, non credeva di fare
nulla di male, lo sai quanto sia affascinato dalla neve” disse strizzando
l'occhio.
“Rischiava di morire assiderato ed era sotto
la mia tutela” replicò la zia scocciata, visibilmente irritata.
“Tu sei matta, e non ti voglio più vedere” risposi cattivo come i bambini sanno esserlo in determinate
circostanze.
Quelle parole insolenti crearono
un pericoloso precedente che nel tempo sarebbe degenerato.
Quando i diavoletti della depressione
andavano a visitarla mi veniva naturale
apostrofarla matta.Stai zitta matta. Tu sei la zia matta. Nessuno vuole una
matta. Quando la cantilena
ingiuriosa diventava insostenibile,
interveniva la mamma, per la verità, in
modo assai blando, insinuando il
dubbio che le mie espressioni offensive, tutto sommato avessero un fondamento di verità.
Negli anni a seguire la zia si isolò
sempre più nel suo mondo fantastico. Aveva il viso prosciugato e pareva
scolpito nella sofferenza. Parlava a monosillabi, convinta di essere un peso
insostenibile per la famiglia e bastava
una parola sbagliata per trasformarla in un persona intrattabile e scatenare scenate spaventose.
Quando crollava il bozzolo dei suoi castelli di sabbia, diventava difficile ricomporre le macerie.
Sul finire di agosto dell'anno
1966 rientrai a casa dopo la
villeggiatura in colonia, al mare. Alla fermata
del bus mi aspettava mio
padre, ricordo la sua espressione
sofferente, la barba lunga, il viso
stropicciato mentre annunciava che da
pochi giorni la zia Rica era mancata a causa di
una malattia tumorale. Il babbo
rammentò le atroci sofferenze affrontate con cristiana rassegnazione
e le dolci parole rivolte nei miei
confronti.
Calde lacrime mi rigarono le guance.
In seguito venni informato che la zia, di natura estremamente pudica,
per evitare di farsi
palpeggiare dal medico, non aveva mai voluto
approfondire l'origine dei ricorrenti dolori al seno. Che sciagurato
sbaglio. Quando il tumore esplose in
tutta la sua virulenza e gravità, si
rivelò tardivo l' utilizzo di una cura efficace.
Oggi lo so, nei ricordi vaporosi della mente rimane indelebile il rimpianto
della tua perdita e, come una ferita aperta, rimane
vivo il dolore di non avere fatto nulla, a causa della troppa
ignoranza, per tentare
di aprire un varco, una
breccia, contro il muro
dell'indifferenza eretto dalla famiglia
nei tuoi confronti.
Quanti errori, quanta sofferenza si sarebbero potuti
evitare alla zia. Bastava armarsi di sana
pazienza, informarsi, avere la voglia di ascoltare invece di reprimere.
A quei tempi, eminenti pensatori sostenevano
che i malati di mente fossero l'espressione, lo specchio deformato della
società. Dopo scoprirono che bisognava indagare all'interno della famiglia,
quale fonte originaria di ogni malessere
psichico e disagio esistenziale in soggetti fragili e sensibili.
La diversità è soffocata dal pregiudizio.
Credo che in molti casi la
follia, le fobie, gli stati d'ansia, le crisi epilettiche, non sono una
semplice predisposizione mentale, ma nascono
quando la persona non viene veicolata in
modo corretto durante lo sviluppo e
la crescita. Una natura sensibile sottoposta a mille frustrazioni, incomprensioni, contrasti
emotivi, perde fiducia in sé stessa e
trasforma il tutto in risentimento, ossessione, isolandosi dal resto del mondo.
Bastava avere il coraggio di
parlare col cuore e mostrare amore, affetto, incoraggiare
e combattere assieme le
paure e forse il percorso della zia
Rica, nonostante tutto, si sarebbe potuto
incanalare e stabilizzare nel binario di
una vita dignitosa.
A distanza di quarantacinque
anni, rivolgo a te, cara zia, il mio accorato appello di perdono, per tutte le volte che sono stato
sgarbato, per averti dileggiato, sbertucciato, offeso, quando dalle pieghe del tuo sorriso amaro, reclamavi amore e
comprensione.
Dal mondo dell'indistinto dove ti trovi,
spero di ricevere dai tuoi occhi un benevolo sorriso compiaciuto.
Forse aveva ragione Martin Luther King quando affermava che :
” Un giorno
la paura bussò alla porta, il coraggio si alzò ad aprire e vide che non c'era
nessuno.”
UN POETA ENTRA IN SCENA
Buonasera lor signori, un poeta entra in scena.
Adesso vi apro la casa dei miei ricordi. Cosa aspettate? Prego entrate. Ricordo il tramonto incendiario in Polinesia.
Il treno sulle Ande sospeso nel vuoto.
La neve finlandese.
Le piogge
monsoniche.
Il perpetuo moto
ondoso sulla scogliera irlandese.
La notte trascorsa nell'oasi, respirando il silenzio opprimente del deserto. Ricordo la savana ricca di magnificenza e inganni. Ho visto la tragedia della sopravvivenza assistendo allo scontro mortale tra un'anaconda e un coccodrillo. I ricordi lasciano spazio ad altri ricordi.
Ricordo l'albergo catapecchia di Hanoi, una squallida camera
dai muri sbilenchi, l'intonaco giallognolo e scrostato, i mobili pieni di
fessure e corrosi dalle tarme. L'odore rancido e stantio simile a quello di tutti gli
alberghi malandati.
Eppure quei muri, come spugne, avevano assorbito il dolore degli uomini e il loro fallimento con la guerra. Ricordo l'immensa pianura russa, i suoi boschi di betulle e latifoglie, attraversati in treno durante l'imperversare della bufera, il ricordo correva al dottor Zivago, al senso della libertà nella dacia congelata, all'infelice amore, alla tirannia, ai milioni di morti.
Rammento, in una assolata Città del Messico, un vecchio sdentato piangere disperato, le braccia protese al cielo, mentre accompagnava il feretro del figlio, morto di stenti nel tentativo di attraversare la frontiera degli Stati Uniti, alla ricerca della felicità.
Ricordo la scritta sul muro esterno del terribile carcere di Algeri:
il ferro si piega, l'acciaio si spezza e l'uomo?
Ah, quanta
sofferenza scopri nel mondo visitato.
Nell'urlo del vento
sembra di percepire i lamenti delle anime perse, in cerca della pace.
Si dipana, sotto il blu cobalto del cielo, la storia dell'uomo: in tutta la sua grandezza, in tutta la sua miseria; proprio per questo se vogliamo dare un senso alla nostra vita cerchiamo di viverla il più possibile in armonia con il prossimo e di godere e preservare la bellezza del mondo;
presto del nostro passato non rimarrà traccia e sarà come se non fossimo mai esistiti, perchè Dio e qualunque opinione abbia di lui morrà con me assieme a Satana. Amen.
Autore Fabrizio Arrighi
Il nostro Fabrizio Arrighi ha Scritto un breve
Racconto sulla Fiera di Lonato e l'Ambulanza
L'AMBULANZA
ERA UNA FREDDA GIORNATA.FOLATE DI TRAMONTANA AVVOLGEVANO IN UN GELIDO ABBRACCIO
UN'INTRISTITA CAMPAGNA. DAL CIELO, PRIGIONIERO DI UNA DENSA COLTRE GRIGIASTRA
SCENDEVANO RARI FIOCCHI DI NEVE E A LUNGO VOLTEGGIAVANO PLACIDI PRIMA DI CADERE
AL SUOLO.
E IN UN SIMILE SCENARIO METEOROLOGICO MI RECAI A VISITARE LA
FIERA DI LONATO. ERO IN PREDA ALL'INQUIETUDINE E PERCEPIVO UNO STRANO
MALUMORE SENZA TUTTAVIA RIUSCIRE A COGLIERE IL SENSO PREMONITORE DI TALI
SENSAZIONI FISICHE.
GIRAI A LUNGO FRA LE BANCARELLE, SORSEGGIANDO NUMEROSI CAFFè IN COMPAGNIA
DI AMICI DI VECCHIA DATA. DOPO POCO TEMPO VENNI ASSALITO DA UN SENSO DI
SOFFOCAMENTO ALLA GOLA, IL RESPIRO SI FECE AFFANNOSO E CONATI DI VOMITO
SALIRONO DALLA BOCCA DELLO STOMACO.
IMPUTAI ALL'ABUSO DI TROPPI CAFFè E ALL'ABBIGLIAMENTO POCO ADATTO A
CONTRASTARE IL FREDDO PUNGENTE,LA CAUSA DI TALE MALESSERE.
UNA PRECIPITOSA FUGA A CASA FU L'UNICA SOLUZIONE. APPENA VARCATA LA
SOGLIA DISSI A MIA MOGLIE DI STARE POCO BENE. TREMAVO SCOSSO DA VIOLENTI
BRIVIDI INCONTROLLABILI, SPASMI ALLA PANCIA FACEVANO SUSSULTARE IL CORPO,
MENTRE GLI ARTI DIVENTARONO GHIACCIATI. SDRAIATO SUL DIVANO CHIESI ALLA
MOGLIE DI RICHIEDERE L'INTERVENTO DELL'AMBULANZA CHE, PROPRIO QUEL GIORNO,
ENTRAVA PER LA PRIMA VOLTA IN FUNZIONE. IN CAPO A CINQUE MINUTI ARRIVARONO
QUATTRO TRAFELATI GIOVANOTTI.
IN FRETTA E FURIA VENNI LEGATO COME UN SALAME ALLA LETTIGA DOPO AVER
DIAGNOSTICATO, A PARER LORO,UNA BRUTTA CONGESTIONE. NELL'ATTRAVERSARE AL
BUIO IL VIALETTO, UN PORTANTINO URTò CON IL PIEDO UN GROSSO MASSO SPORGENTE E
FU COSTRETTO A LASCIARE LA PRESA. LA BARELLA , PRIVA DI UN SOSTEGNO, SI
CAPOVOLSE E DUE DEI BARELLIERI VOLARONO A GAMBE ALL'ARIA IN UNA SORTA DI
PIROETTA MORTALE. LA LETTIGA SCIVOLò PER UNA DECINA DI METRI SUL TERRENO
INNEVATO, MA ANCHE SOPRA LA MANO DI UNO DEI SOCCORRITORI E GLI LACERò QUATTRO
DITA. UNA SCENA ESILARANTE APPARVE AGLI OCCHI DI QUANTI SI AFFICCIARONO
ALLE FINESTRE, RICHIAMATI DALL'OSSESSIVO SUONO DELLA SIRENA.
IO CAPOVOLTO CON LA FACCIA NELLA NEVE GRIDAVO " AHIA, LA
MIA PANCIA...AIUTO....OSSIGNUR...CHE DULUR". IL SOCCORRITORE REGGEVA
CON LA MANO SANA QUELLA FERITA MENTRE IL SANGUE GOCCIOLAVA COPIOSO:" AHI
LA MANO...AHI LA MANO".RICOMPOSTA LA SURREALE SCENA VENNI ADAGIATO
ALL'INTERNO DELL'AMBULANZA , SOPRA LA QUALE MIA MOGLIE SALì PIUTTOSTO
TITUBANTE. VENNE L'AUTISTA A CONTROLLARE LA SITUAZIONE. ERA UN RAGAZZO
LENTIGGINOSO, ROSSICCIO DI CAPELLI E CON UNA BARBETTA
SPELACCHIATA. GESTIVA UN NEGOZIO DI POMPE FUNEBRI E ASSOMIGLIAVA AL BECCHINO
DI CERTI VECCHI FILM WESTERN. FU NATURALE SOPRANNOMINARLO
MORTIMER.
A UN CENNO DEI PORTANTINI PARTì A RAZZO SENZA ATTENDERE LA CHIUSURA DEL
PORTELLONE CHE PRESE A SBATACCHIARE A DESTRA E SINISTRA SEGUENDO IL RITMO A ZIG
ZAG IMPOSTO DALL'AUTISTA ALL'AMBULANZA.MORTIMER CORREVA A VELOCITà
PAZZESCA.ALL'NTERNO ERAVAMO TUTTI AMMUTOLITI. GIUNTI A BRESCIA UN
PORTANTINO CHIESE A MORTIMER DOVE FOSSE COLLOCATO L'INTERRUTORE PER ACCENDERE
LE LUCI.
PURTROPPO NON GLI RIUSCì DI FORMULARE APPIENO LA RICHIESTA PERCHè NELL'AFFRONTARE
UNA CURVA IN PIENA VELOCITà, L'AMBULANZA NON CAPOTTò PER UN PELO. IL
PORTANTINO, CHE NON SI ASPETTAVA UNA MANOVRA TANTO SPERICOLATA, DECOLLò DAL
PAVIMENTO E SI SCHIANTò CONTRO IL TUBO METALLICO CHE SERVIVA DA ANCORAGGIO A
MIA MOGLIE IN UNA POSA DA BALLERINA DI LAP DANCE. " aHI LA MIA
SCHIENA" GRIDò INVIPERITO.
PER INCANTO RITORNò LA LUCE. FINALMENTE RAGGIUNGEMMO IL
MPRONTO SOCCORSO DEL CIVILE E UN SOLLIEVO IMPORPORò IL VOLTO INCUPITO DELLE
PERSONE A BORDO, COME A DIRE :" L'ABBIAMO SCAMPATA BELLA." MORTIMER
APRì IL PORTELLONE MENTRE DUE BARELLIERI DELL'OSPEDALE ERANO PRONTI A
RACCOGLIERE L'INFORTUNATO. SCESE IL PRIMO PORTANTINO CON LA MANO FASCIATA
CON UN PANNO INZUPPATO DI SANGUE. "COS'è SUCCESSO?"CHIESE
L'INFERMIERE. "NON SONO IO QUELLO BISOGNOSO DI ASSISTENZA"
RISPOSE MANOMOZZA.
APPARVE IL SECONDO PORTANTINO PIEGATO A METà, A CAUSA DEL GRAN
COLPO SUBITO ALL'INTERNO DELL'AMBULANZA. "COME TI SEI FATTO
MALE?"DOMANDò ACCIGLIATO IL SECONDO INFERMIERE. "NO, NON SONO IO
QUELLO CHE DOVETE SOCCORRERE" REPLICò IL GOBBO ,SOLLEVANDO A FATICA LA
TESTA.
"SI PUò SAPERE CHI CAZZO è CHE DOBBIAMO SOCCORRERE" SBRAITò
ESPLICITO L'INFURIATO INFERMIERE. "iO" RISPOSI CON UN FILO DI
VOCE.L'INFERMIERE CHIESE SPIEGAZIONI A MORTIMER PERCHè AVEVANO RICEVUTO LA SEGNALAZIONE
DI CURARE UN INFORTUNATO E NON TRE.
MORTIMER SERRANDO FRA I DENTI UN SIGARO SPENTO RISPOSE A MEZZA VOCE:"
ABBIAMO AVUTO DEI CONTRATTEMPI DURANTE IL VIAGGIO"DA ALLORA OGNI QUALVOLTA
SENTO UNA SIRENA IN AVVICINAMENTO MI TOCCO CON UNA CERTA VIOLENZA LE PARTI
INTIME.
ERA UNA FREDDA GIORNATA.FOLATE DI TRAMONTANA AVVOLGEVANO IN UN GELIDO ABBRACCIO UN'INTRISTITA CAMPAGNA. DAL CIELO, PRIGIONIERO DI UNA DENSA COLTRE GRIGIASTRA SCENDEVANO RARI FIOCCHI DI NEVE E A LUNGO VOLTEGGIAVANO PLACIDI PRIMA DI CADERE AL SUOLO.
E IN UN SIMILE SCENARIO METEOROLOGICO MI RECAI A VISITARE LA FIERA DI LONATO. ERO IN PREDA ALL'INQUIETUDINE E PERCEPIVO UNO STRANO MALUMORE SENZA TUTTAVIA RIUSCIRE A COGLIERE IL SENSO PREMONITORE DI TALI SENSAZIONI FISICHE.
GIRAI A LUNGO FRA LE BANCARELLE, SORSEGGIANDO NUMEROSI CAFFè IN COMPAGNIA DI AMICI DI VECCHIA DATA. DOPO POCO TEMPO VENNI ASSALITO DA UN SENSO DI SOFFOCAMENTO ALLA GOLA, IL RESPIRO SI FECE AFFANNOSO E CONATI DI VOMITO SALIRONO DALLA BOCCA DELLO STOMACO.
IMPUTAI ALL'ABUSO DI TROPPI CAFFè E ALL'ABBIGLIAMENTO POCO ADATTO A CONTRASTARE IL FREDDO PUNGENTE,LA CAUSA DI TALE MALESSERE.
UNA PRECIPITOSA FUGA A CASA FU L'UNICA SOLUZIONE. APPENA VARCATA LA SOGLIA DISSI A MIA MOGLIE DI STARE POCO BENE. TREMAVO SCOSSO DA VIOLENTI BRIVIDI INCONTROLLABILI, SPASMI ALLA PANCIA FACEVANO SUSSULTARE IL CORPO, MENTRE GLI ARTI DIVENTARONO GHIACCIATI. SDRAIATO SUL DIVANO CHIESI ALLA MOGLIE DI RICHIEDERE L'INTERVENTO DELL'AMBULANZA CHE, PROPRIO QUEL GIORNO, ENTRAVA PER LA PRIMA VOLTA IN FUNZIONE. IN CAPO A CINQUE MINUTI ARRIVARONO QUATTRO TRAFELATI GIOVANOTTI.
IN FRETTA E FURIA VENNI LEGATO COME UN SALAME ALLA LETTIGA DOPO AVER DIAGNOSTICATO, A PARER LORO,UNA BRUTTA CONGESTIONE. NELL'ATTRAVERSARE AL BUIO IL VIALETTO, UN PORTANTINO URTò CON IL PIEDO UN GROSSO MASSO SPORGENTE E FU COSTRETTO A LASCIARE LA PRESA. LA BARELLA , PRIVA DI UN SOSTEGNO, SI CAPOVOLSE E DUE DEI BARELLIERI VOLARONO A GAMBE ALL'ARIA IN UNA SORTA DI PIROETTA MORTALE. LA LETTIGA SCIVOLò PER UNA DECINA DI METRI SUL TERRENO INNEVATO, MA ANCHE SOPRA LA MANO DI UNO DEI SOCCORRITORI E GLI LACERò QUATTRO DITA. UNA SCENA ESILARANTE APPARVE AGLI OCCHI DI QUANTI SI AFFICCIARONO ALLE FINESTRE, RICHIAMATI DALL'OSSESSIVO SUONO DELLA SIRENA.
IO CAPOVOLTO CON LA FACCIA NELLA NEVE GRIDAVO " AHIA, LA MIA PANCIA...AIUTO....OSSIGNUR...CHE DULUR". IL SOCCORRITORE REGGEVA CON LA MANO SANA QUELLA FERITA MENTRE IL SANGUE GOCCIOLAVA COPIOSO:" AHI LA MANO...AHI LA MANO".RICOMPOSTA LA SURREALE SCENA VENNI ADAGIATO ALL'INTERNO DELL'AMBULANZA , SOPRA LA QUALE MIA MOGLIE SALì PIUTTOSTO TITUBANTE. VENNE L'AUTISTA A CONTROLLARE LA SITUAZIONE. ERA UN RAGAZZO LENTIGGINOSO, ROSSICCIO DI CAPELLI E CON UNA BARBETTA SPELACCHIATA. GESTIVA UN NEGOZIO DI POMPE FUNEBRI E ASSOMIGLIAVA AL BECCHINO DI CERTI VECCHI FILM WESTERN. FU NATURALE SOPRANNOMINARLO MORTIMER.
A UN CENNO DEI PORTANTINI PARTì A RAZZO SENZA ATTENDERE LA CHIUSURA DEL PORTELLONE CHE PRESE A SBATACCHIARE A DESTRA E SINISTRA SEGUENDO IL RITMO A ZIG ZAG IMPOSTO DALL'AUTISTA ALL'AMBULANZA.MORTIMER CORREVA A VELOCITà PAZZESCA.ALL'NTERNO ERAVAMO TUTTI AMMUTOLITI. GIUNTI A BRESCIA UN PORTANTINO CHIESE A MORTIMER DOVE FOSSE COLLOCATO L'INTERRUTORE PER ACCENDERE LE LUCI.
PURTROPPO NON GLI RIUSCì DI FORMULARE APPIENO LA RICHIESTA PERCHè NELL'AFFRONTARE UNA CURVA IN PIENA VELOCITà, L'AMBULANZA NON CAPOTTò PER UN PELO. IL PORTANTINO, CHE NON SI ASPETTAVA UNA MANOVRA TANTO SPERICOLATA, DECOLLò DAL PAVIMENTO E SI SCHIANTò CONTRO IL TUBO METALLICO CHE SERVIVA DA ANCORAGGIO A MIA MOGLIE IN UNA POSA DA BALLERINA DI LAP DANCE. " aHI LA MIA SCHIENA" GRIDò INVIPERITO.
PER INCANTO RITORNò LA LUCE. FINALMENTE RAGGIUNGEMMO IL MPRONTO SOCCORSO DEL CIVILE E UN SOLLIEVO IMPORPORò IL VOLTO INCUPITO DELLE PERSONE A BORDO, COME A DIRE :" L'ABBIAMO SCAMPATA BELLA." MORTIMER APRì IL PORTELLONE MENTRE DUE BARELLIERI DELL'OSPEDALE ERANO PRONTI A RACCOGLIERE L'INFORTUNATO. SCESE IL PRIMO PORTANTINO CON LA MANO FASCIATA CON UN PANNO INZUPPATO DI SANGUE. "COS'è SUCCESSO?"CHIESE L'INFERMIERE. "NON SONO IO QUELLO BISOGNOSO DI ASSISTENZA" RISPOSE MANOMOZZA.
APPARVE IL SECONDO PORTANTINO PIEGATO A METà, A CAUSA DEL GRAN COLPO SUBITO ALL'INTERNO DELL'AMBULANZA. "COME TI SEI FATTO MALE?"DOMANDò ACCIGLIATO IL SECONDO INFERMIERE. "NO, NON SONO IO QUELLO CHE DOVETE SOCCORRERE" REPLICò IL GOBBO ,SOLLEVANDO A FATICA LA TESTA.
"SI PUò SAPERE CHI CAZZO è CHE DOBBIAMO SOCCORRERE" SBRAITò ESPLICITO L'INFURIATO INFERMIERE. "iO" RISPOSI CON UN FILO DI VOCE.L'INFERMIERE CHIESE SPIEGAZIONI A MORTIMER PERCHè AVEVANO RICEVUTO LA SEGNALAZIONE DI CURARE UN INFORTUNATO E NON TRE.
MORTIMER SERRANDO FRA I DENTI UN SIGARO SPENTO RISPOSE A MEZZA VOCE:" ABBIAMO AVUTO DEI CONTRATTEMPI DURANTE IL VIAGGIO"DA ALLORA OGNI QUALVOLTA SENTO UNA SIRENA IN AVVICINAMENTO MI TOCCO CON UNA CERTA VIOLENZA LE PARTI INTIME.
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